VERSO UN’ECONOMIA BLU


A cura del PROF. FERDINANDO BOERO

CTN BIG – NEWSLETTER 2/2022

economia blu

Dopo tanti appelli, convenzioni e trattati internazionali, l’Europa decide di passare all’azione e investe notevoli risorse
per attuare la transizione ecologica, per rendere sostenibili i nostri sistemi di produzione e consumo.
Se, a terra, questa viene chiamata transizione verde, in mare l’aggettivo diventa “blu”. Nasce così la blu economy
che, in un primo tempo, venne chiamata Blue Growth, la Crescita Blu.


La parola “crescita”, però, è in contrasto con la nozione stessa di sostenibilità e, anche, di transizione ecologica.
In natura esistono due leggi fondamentali, entrambe identificate da Charles Darwin ne L’Origine delle Specie. La
prima legge
è proprio quella della crescita: tutte le specie tendono ad aumentare di numero. L’aumento numerico è la
“crescita”, e questo paradigma domina anche il pensiero economico corrente. Ogni politica economica mira alla crescita. Se la crescita si interrompe, si parla di stagnazione. Se il trend si inverte e si ha la decrescita, si parla di recessione. L’unico obiettivo degno di essere perseguito è, quindi, la crescita.


La seconda legge della natura fa da contrappeso alla prima: anche se tutte le specie tendono ad aumentare di
numero, non tutte possono farlo, perché non si sono risorse sufficienti per sostenerle tutte. La legge del limite è il
calmiere della legge della crescita. Il concetto è semplice: non è possibile che la crescita sia infinita e, quindi, prima o poi si deve arrestare. Se qualcosa cresce, inoltre, qualcos’altro decresce. Una legge economica avverte che non ci sono pasti gratuiti, e tutto ha un prezzo.
Il capitale economico (la nostra economia) cresce a spese del capitale naturale, costituito essenzialmente da
biodiversità ed ecosistemi. Il capitale naturale ci mette a disposizione beni (il cibo, i materiali) e servizi (la produzione
di ossigeno, la rimozione di anidride carbonica, la mitigazione del clima e molto altro) che sono necessari per la nostra
sopravvivenza. L’economia cresce a spese della natura.
La natura si rinnova con la riproduzione delle specie che costituiscono la biodiversità. Se il nostro consumo viene
bilanciato dal rinnovamento, il capitale naturale non viene eroso. Ma se consumiamo più di quello che la natura
produce, erodiamo il capitale naturale. Dato che non possiamo vivere senza la natura, se la erodiamo rimuoviamo le
premesse per il nostro benessere.


La sostenibilità si realizza se il consumo del capitale naturale è inferiore rispetto al suo rinnovamento. In
caso contrario contraiamo debiti con la natura che, prima o poi, dovremo pagare. I guadagni dell’erosione si possono
misurare in termini monetari, ma i costi non si pagano con i soldi. Se “erodiamo” l’aria che respiriamo, rendendola
irrespirabile, non possiamo pagare qualcuno per avere l’aria. I soldi diventano inutili se non c’è qualcosa da comprare.


La transizione ecologica significa “transitare” da una visione del mondo basata esclusivamente su principi
economici (la crescita) a una visione che tenga conto anche di principi ecologici (crescita e limite).
A terra
il capitale naturale è stato eroso in modo pervasivo. Non esistono più popolazioni naturali di piante e animali dalle
quali possiamo attingere risorse. Tutti i beni che prendiamo dalla natura, a terra, derivano da coltivazioni di piante
e allevamento di animali. L’agricoltura industriale utilizza estensioni sempre più vaste di territorio, eradicando la
biodiversità per sostituirla con popolazioni artificiali di poche specie sostenute con l’uso di fertilizzanti e pesticidi.

In mare, invece, ancora possiamo trarre risorse da popolazioni naturali (con la pesca) ma stiamo distruggendo anche
quelle e anche in mare stiamo passando all’agricoltura. La pesca è in recessione perché il capitale naturale (i pesci) è
stato eroso e abbiamo estratto più risorse rispetto a quelle che si rinnovano con la riproduzione. Abbiamo affrontato il
problema con tecnologie di prelievo sempre più efficienti, portando le risorse all’esaurimento. E ora stiamo passando all’allevamento del bestiame anche in ambiente marino, con l’acquacoltura. È questa la soluzione? No. L’acquacoltura
di carnivori non è sostenibile: alleviamo predatori che hanno bisogno di mangime a base animale, mentre a terra
alleviamo solo erbivori e onnivori. In mare alleviamo lupi, leoni e tigri, e li nutriamo con mucche, zebre e gnu. Le
spigole, le orate, i salmoni sono nutriti con farine di pesce, derivanti da popolazioni naturali di specie di basso valore
commerciale: stiamo raschiando il fondo del barile.

Il mare, però, non ci offre soltanto il cibo. Le correnti marine mitigano il clima atmosferico e ne determinano
l’andamento, essendone a loro volta influenzate. Se, a causa del riscaldamento globale, i ghiacci marini polari si
sciolgono, invece di formarsi, si alterano i processi che generano la grande circolazione oceanica globale: il grande
nastro trasportatore oceanico. I cambiamenti delle correnti causati dal riscaldamento globale generano ulteriori
cambiamenti climatici che, lo stiamo vedendo, generano fenomeni sempre più estremi: siccità e inondazioni. L’acqua
evapora dall’oceano, diventa nuvole, e poi ricade sulle terre emerse, vivificandole. L’estremizzazione climatica vede
lunghi periodi di siccità seguiti da precipitazioni intensissime. La quantità d’acqua che viene mobilizzata è sempre la
stessa, ma la distribuzione delle precipitazioni cambia radicalmente. Tutto questo ha costi enormi in termini di sicurezza alimentare, e anche di vite umane, visto che questi fenomeni estremi reclamano vite. Il deterioramento delle condizioni climatiche causa guerre e migrazioni, con grande instabilità politica, sociale ed economica.

Altri impatti sul capitale naturale riguardano i veleni che immettiamo nell’ambiente con le nostre attività. Di solito
i nostri prodotti di rifiuto arrivano al mare: ce ne accorgiamo con la plastica ma ci sono altri impatti più subdoli che
non sono altrettanto visibili ma che hanno severi effetti sulla nostra salute e su quella degli ecosistemi. Basti pensare
ai metalli pesanti, all’eccesso di nutrienti utilizzati in agricoltura, ai pesticidi, ai reflui urbani e industriali. L’economia blu,
cioè l’economia legata al mare, è strettamente connessa a quella basata a terra.

Capire il problema è il primo passo. Non possiamo continuare a produrre e a consumare in un modo
eccessivamente dispendioso in termini di capitale naturale.
Non si tratta di romantico ambientalismo che vuole
salvare qualche specie carismatica dall’estinzione. Si tratta di pura economia. I costi generati dalla distruzione del
capitale naturale superano i benefici che derivano dalla distruzione stessa. I benefici economici sono immediati, ma
prima o poi si devono sostenere i costi. Il capitale prelevato deve essere restituito, e ci sono anche gli interessi. Si tratta
di cifre che non ci possiamo permettere di pagare e che spesso paghiamo con la vita.

Una volta compreso il problema, dobbiamo prospettare soluzioni. Queste, però, non possono essere attuate con gli
stessi paradigmi che hanno generato i problemi. La transizione ecologica significa proprio questo: cambiare
paradigmi. Le soluzioni si basano su due principi molto semplici. Il primo consiste nel consumare meno, ottimizzando
i processi di produzione e consumo. Il secondo consiste nel produrre con tecnologie nuove, che non causino i danni
delle tecnologie attuali. La transizione ecologica consiste, quindi, nella consapevolezza che la crescita infinita del
capitale economico non è possibile, e che sarà fermata dalla decrescita del capitale naturale.
Se è semplice capire i principi della sostenibilità, è per ora difficile metterli in pratica. Sappiamo “cosa” dobbiamo fare,
ma per il momento non sappiamo “come”. Il “come” richiede nuove tecnologie che ci permettano di prosperare senza
erodere il capitale naturale. Le dobbiamo inventare. I fondi della transizione ecologica dovranno servire a questo.
Come non ripetere gli errori del passato? Fino a non molto tempo fa, e per molti anche oggi, l’ecologia è stata vista come un ostacolo all’economia. Le recessioni, generate da erosione del capitale naturale, o da folli operazioni
finanziarie, sono state considerate come letali interruzioni della crescita, e spesso sono portate come esempio
delle conseguenze di visioni che non mirano alla crescita (gli ecologi). Le recessioni, però, sono il risultato di azioni
economiche che miravano alla crescita, e non sono dovute alle proteste degli ambientalisti che, fino ad ora, non sono
mai riusciti ad incidere sulle scelte di politica economica.

La transizione ecologica, quindi, richiede armonia tra economia ed ecologia, un’armonia mediata
dalle tecnologie.
Come capire se quel che proponiamo è sostenibile? La risposta ce la forniscono le condizioni
dell’ambiente, in termini di biodiversità ed ecosistemi. Se le nostre azioni deteriorano la biodiversità e gli ecosistemi,
non sono sostenibili. Se invece fanno migliorare lo stato dell’ambiente, allora sono sostenibili. L’ecologia deve diventare la guida di economisti e tecnologi, e deve essere il giudice dell’efficacia delle loro proposte. Non per “guastare le feste” ma per impedire che le feste diventino tragedie.

Per attuare questa politica dobbiamo investire in conoscenza. Le poche risorse destinate allo studio
dell’ambiente (visto come un ostacolo alla crescita) hanno lasciato grandi margini di ignoranza su biodiversità ed
ecosistemi. Si stima che la biodiversità ammonti a circa otto milioni di specie, ma abbiamo descritto solo due milioni
di esse. Come possiamo gestire un capitale che non conosciamo? E se non conosciamo la struttura dell’ambiente (la
biodiversità) come possiamo pretendere di comprenderne la funzione (gli ecosistemi)? Dobbiamo investire in questo
senso e, in parallelo, dobbiamo investire in innovazione tecnologica.
Lo dobbiamo fare sia in mare (la blue economy) sia a terra (la transizione verde) perché i due sistemi
(terrestre e marino) sono strettamente connessi
e non è possibile gestirne uno senza comprendere anche
l’altro. L’ecologia è la scienza delle interazioni, non delle compartimentazioni. I principi generali sono stati compresi
nelle direttive europee, dalla Direttiva Acque, alla Direttiva Habitat, alla Direttiva della Strategia Marina, a quella della
Pianificazione Spaziale Marittima. La Commissione Europea ha lanciato la Missione Healthy Oceans, Seas,
Coastal and Inland Waters.
Ci sono le direttive, ci sono i fondi: gran parte del PNRR dovrebbe essere
dedicato alla transizione ecologica.

Ma non possiamo pensare di attuare la transizione ecologica senza una transizione culturale che dia centralità al
capitale naturale (l’oggetto di studio dell’ecologia). Questo richiederà una riforma radicale dei sistemi di formazione del
capitale umano, dalle elementari all’università. Sarà questo capitale umano a cercare e, speriamo, a trovare le soluzioni.
Ora, la cosa più urgente è capire il problema e iniziare la transizione verso le soluzioni. Esistono esempi puntuali di
sostenibilità marina, ad esempio l’allevamento di specie marine che non richiedono mangimi (come i mitili), o la
generazione di energia con impianti eolici al largo. Ma ora non abbiamo bisogno di esempi singoli. È necessario
cambiare il nostro modo di concepire l’economia e il nostro modo di rapportarci con la natura.

I nostri soci

Il Cluster BIG riunisce una rete di eccellenza composta da università, enti di ricerca, aziende e enti pubblici che operano nel settore della blue economy.

La collaborazione e la condivisione di competenze tra i nostri associati rappresentano il motore trainante dell’innovazione e della crescita sostenibile del settore.

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